Rinviata causa di licenziamento illegittimo per maternità

Il licenziamento avvenuto due anni fa, poi il processo di primo e secondo grado. La dipendente di un’azienda, allontanata dal posto di lavoro durante la maternità, si è vista respingere le richieste di reintegro e risarcimento; il licenziamento era stato motivato dalla lunga assenza della donna, e tale assenza, non giustificata, è stata ritenuta causa del legittimo licenziamento.
La donna ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, motivando la sua posizione con diverse ragioni. Innanzitutto, hanno sostenuto i legali della lavoratrice, il lungo periodo di assenza era motivato dallo stato di gravidanza e dalla conseguente maternità; inoltre, si è voluta porre l’attenzione sul fatto che al posto della lavoratrice fosse subentrata un’altra dipendente, già prima del suo licenziamento. Inoltre, la difesa della donna ha ritenuto superficiale l’analisi del caso da parte dei precedenti giudici, in quanto nessuno avrebbe preso in considerazione il singolo caso e le circostanze del licenziamento, ritenuto discriminatorio e illegittimo.
La Cassazione ha parzialmente accolto il ricorso, rinviando tutto alla Corte di Appello di Venezia. Non è stato possibile, infatti, decidere in un senso o nell’altro, dal momento che non tutte le richieste della lavoratrice sono state prese in analisi nei precedenti gradi di giudizio. Inoltre, la Cassazione ha ritenuto importante sottolineare la legislatura che tutela i lavoratori durante la maternità e la paternità:

“[…] Non è superfluo osservare che il decreto legislativo n. 151/2001, in attuazione dei valori di cui agli artt. 31 e 37 Cost. e della Direttiva CE n. 85 del 1992, prevede un articolato e complesso insieme di garanzie e diritti volti ad assicurare l’essenziale funzione familiare della donna e rispondenti all’esigenza di tutela della maternità (ora, in senso più lato, della genitorialità); nè la peculiare natura dei valori così protetti e la preminenza dai medesimi rivestita nell’ordinamento è priva di riflessi nella dimensione attuativa del rapporto, richiedendo o legittimando, alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede, tutti quei comportamenti, sia di segno positivo che negativo, e anche non strutturalmente riconducibili ad un facere, che possano cooperare alla loro attuazione. […]”.

Sentenza 30 giugno 2016/13455

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